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SARÀ LA CORTE SUPREMA STATUNITENSE A DECIDERE IL DESTINO DI “VETEMENTS”? L’ESAME DI VALIDITÀ DEI MARCHI TRA PROPRIETÀ INTELLETTUALE E LINGUISTICA

di Beatrice Marone

La saga di “VETEMENTS” non si è conclusa, anzi si arricchisce (forse) di un nuovo episodio, dinanzi alla massima autorità giudiziaria sul territorio statunitense. Infatti, la Corte Suprema è stata chiamata ad emettere la propria decisione su un caso che comporta non soltanto un esame del diritto dei marchi ma anche una vera e propria analisi delle competenze linguistiche dei cittadini statunitensi.

 

La vicenda ha origine nel giugno 2020, quando la società svizzera Vetements Group AG deposita dinanzi all’Ufficio Marchi statunitense due domande di marchio: la domanda n. 88944198 per il segno denominativo “VETEMENTS”, datata 2 giugno, e la domanda n. 88946135 per il segno figurativo

depositata il giorno successivo, entrambe con rivendica di prodotti e servizi nelle classi 25 e 35 della Classificazione di Nizza. La società svizzera rappresenta il passo conclusivo dell’avventura iniziata nel 2014 da un gruppo di nove creativi, fra cui i più noti sono i fratelli georgiani Guram e Demna Gvasalia: Demna, dopo un’esperienza quasi decennale come direttore creativo di Balenciaga, debutta nel mese di settembre 2025 al timone di Gucci; Guram, dopo esserne stato CEO, dal 2021 è, invece, il direttore creativo proprio di Vetements.

 

Entrambe le domande di marchio sono state oggetto di un provvedimento di rifiuto emesso alla fine del 2020 da parte del competente Esaminatore statunitense e, successivamente, del Trademark Trial and Appeal Board, in seno allo stesso Ufficio Marchi statunitense, nel 2021. Il rifiuto si basava su uno dei più comuni motivi di impedimento assoluto: la genericità del segno per cui veniva richiesta tutela tramite le domande o, eventualmente, la descrittività della parola “VETEMENTS” per i prodotti e servizi rivendicati dalle domande stesse, ossia Camicie, gonne, maglioni, cappotti, giacche, completi, berretti, copricapi, cappelli, cappucci, visiere, sciarpe, guanti, scarpe, stivali, cinture, magliette, pantaloni, camicette, abiti” in classe 25 e “Servizi di vendita al dettaglio online di camicie, gonne, maglioni, cappotti, giacche, completi, berretti, copricapi, cappelli, cappucci, visiere, sciarpe, guanti, scarpe, stivali, cinture, magliette, pantaloni, camicette, abiti” in classe 35.

Nel maggio 2025, la Corte d’Appello del Circuito Federale ha confermato la linea argomentativa dello USPTO, ricollegandosi, da un lato, all’insufficienza di prove fornite dalla titolare in merito all’acquisita distintività dei segni oggetto delle domande e, dall’altro, alla cosiddetta “dottrina degli equivalenti stranieri”. Tuttavia, Vetements non sembra demordere rispetto alla possibilità di tutelare sul territorio statunitense il segno al centro della propria strategia di brand. Nell’agosto 2025, infatti, la società ha depositato dinanzi alla Corte Suprema un’istanza atta a richiedere l’emissione di un provvedimento che, nella disciplina di common law, è indicato come “writ of certiorari”. Alla base di tale istanza è stata posta da Vetements l’argomentazione secondo cui una corte di grado inferiore ha valutato e deciso in maniera incorretta un’importante questione di diritto e, dunque, deve essere posto rimedio immediato a tale errore per evitare incertezze nel diritto.

 

Secondo quando sostenuto dai legali di Vetements, la decisione della Corte federale è non soltanto non aggiornata ma, altresì, in contrasto con il principio per cui l’esito dell’esame formale relativo alla registrabilità di una domanda di marchio deve essere ancorato alla reale percezione del consumatore di riferimento. Secondo tale prospettiva, l’applicazione della dottrina degli equivalenti stranieri, che richiede al competente esaminatore di tradurre termini non in lingua inglese per verificarne la compatibilità con gli impedimenti assoluti alla registrazione, è, da un lato, desueta, e, dall’altro lato, in contrasto con alcuni precedenti stabiliti dalla stessa Corte Suprema. Inoltre, anche i dati empirici sui quali si basa la decisione vengono contestati dalla ricorrente: la Corte Federale avrebbe, infatti, erroneamente basato il proprio giudizio sul fatto che il francese sia la seconda lingua più insegnata nelle scuole americane e la quinta più parlata nelle case americane, mentre Vetements sostiene che la percentuale di popolazione in grado di connettere tale parola a “vestiti” sia minimale.

 

L’esito della disputa sembra, al momento attuale, quantomai incerto. In primis, non è certo che la Corte Suprema accetti l’istanza di Vetements e, di conseguenza, proceda alla revisione della decisione della Corte federale. Tuttavia, nel caso in cui tale scenario si palesi, la decisione è certamente destinata ad avere un impatto notevole sul destino di numerosi brand e di un mercato, come quello della moda, che risulta sempre più globalizzato.

 

In ogni caso, la vicenda pone in evidenza una molteplicità di temi che si intersecano tra loro, tra i quali ha di certo una grande rilevanza la questione relativa alla concreta percezione del marchio da parte del consumatore di riferimento, questione spesso tralasciata dagli Uffici preposti all’esame formale delle domande di marchio e, quindi, spesso attivata solo nel contesto di procedimenti pendenti avanti alle Corti.