Il presente sito utilizza dei cookie di tracciamento al fine di valutare la provenienza ed il comportamento dell'utente.
Per saperne di più leggi la Privacy Policy e la Cookie Policy.
Clicca su ACCETO per consentire l'utilizzo dei Cookies oppure clicca su DECLINO per proseguire in forma anonima

05
06
24

IL FENOMENO DEL CD. GREENWASHING E LA RECENTE DIRETTIVA UE 2024/825

Negli ultimi anni il tema della sostenibilità ambientale ha assunto un'importanza centrale sia sotto il profilo del dibattito politico sia, conseguentemente, sul piano più strettamente giuridico. Ciò ha spinto molte aziende ad adottare politiche ecologiche, a promuovere prodotti e servizi green, nonché ad orientare i propri investimenti nella filiera della sostenibilità.

Tuttavia, questa tendenza ha anche dato origine a pratiche ingannevoli, conosciute anche con il termine "greenwashing".

Il greenwashing – traducibile come “ambientalismo di facciata” – consiste quindi in una strategia di comunicazione o di marketing perseguita dalle aziende che presentano come ecosostenibili le proprie attività piuttosto che i propri prodotti, cercando di occultarne l’impatto ambientale negativo o comunque promuovendosi come soggetti sostenibili sul mercato.

Per avere anche solo un'idea dell'entità del fenomeno, basti pensare che un’indagine condotta nel 2022 dall’Institute For Business Value ha rilevato che per i consumatori è aumentata l’importanza della sostenibilità ambientale negli ultimi anni, tanto da spingere il 49% degli intervistati a riconoscere di aver pagato un sovrapprezzo per prodotti cosiddetti “sostenibili”. Da ciò risulta evidente la potenzialità in termini economici di un fenomeno come il greenwashing, in quanto strumento potenzialmente volto ad ottenere ingiustificati vantaggi nel mercato.

In sostanza, il greenwashing, come già accennato sopra, altro non è che una forma di pubblicità ingannevole che può consistere, a titolo esemplificativo, in:

  • claims ingannevoli o generici: utilizzo di termini come “ecologico” o “sostenibile” in modo assolutamente generico e senza uno specifico fondamento;
  • omissioni rilevanti: vengono messi in risalto dei minimi aspetti ecologici di un prodotto, mentre se ne omettono altri non propriamente green;
  • certificazioni non riconosciute: utilizzo per la promozione del prodotto o del servizio di certificazioni ambientali create internamente o comunque non riconosciute da autorità pubbliche.

Il greenwashing presenta quindi un duplice effetto: se da un lato allarga la scala di clientela delle aziende, attirando i consumatori più attenti alla sostenibilità, dall'altro devia l’attenzione dell’opinione pubblica da eventuali difetti del prodotto.

Un ulteriore dato su cui vale la pena soffermarsi emerge da un rapporto redatto dalla Commissione Europea nel 2021, da cui risulta che il 42% dei siti web aziendali che affermano di promuovere prodotti ecologici presenta green claims ingannevoli o pratiche commerciali scorrette.

Nel tentativo di arginare tale fenomeno, lo scorso 6 marzo 2024 è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea la Direttiva UE 2024/825 del Parlamento Europeo. Il chiaro e dichiarato obiettivo del legislatore europeo è quello di tutelare i consumatori da pratiche commerciali ingannevoli, consentendo loro di prendere decisioni di acquisto sulla base di un set informativo adeguato e corretto. Le principali previsioni sono:

  • previsione di marchi di sostenibilità e certificazioni: con la Direttiva viene vietata l’esibizione di marchi di sostenibilità che non derivino da un sistema di certificazione basato su uno standard, aperto a tutti gli operatori, con condizioni trasparenti ed eque o che siano stati stabiliti da autorità pubbliche;
  • divieto di green claims generici: la Direttiva pone un divieto all’utilizzo di asserzioni ambientali generiche in assenza di uno specifico fondamento. A titolo esemplificativo, tra i green claims generici vengono ricomprese espressioni come “verde”, “rispettoso dell’ambiente”, “ecocompatibile”. Nello stesso testo della Direttiva viene riportato un esempio, per meglio specificare il discrimine tra le asserzioni ambientali generiche, e quindi vietate, e quelle specifiche, dunque lecite. Nella Direttiva si legge quindi che un’asserzione come “imballaggio rispettoso dal punto di vista del clima” costituisce un’asserzione generica, mentre affermare che “il 100 % dell’energia utilizzata per produrre questo imballaggio proviene da fonti rinnovabili” consiste in un’asserzione specifica e, di conseguenza, consentita;
  • divieto di affermazioni sul prodotto nella sua globalità: la Direttiva specifica come sia ingannevole affermare una determinata caratteristica riferendosi al prodotto nel suo intero mentre, in realtà, tale affermazione riguarderebbe solo una parte del prodotto: si pensi ad esempio alla seguente specifica di un prodotto “realizzato con materiale riciclato”, quando in realtà solamente l’imballaggio è stato realizzato con materiale riciclato;
  • divieto di dichiarazioni sulle prestazioni ambientali future: le aziende fanno sempre più spesso riferimento a prestazioni ambientali future. Attraverso tale tecnica, quest’ultime danno l’impressione che acquistando i loro prodotti i consumatori contribuiscano a ridurre l’impatto ambientale. La Direttiva pone quindi anche un divieto a tali dichiarazioni su prestazioni ambientali future, a meno che queste ultime si basino su un piano dettagliato e verificabile, che includa impegni chiari ed oggettivi e che sia pubblicamente disponibile e verificabile.

Tuttavia, è bene considerare che il termine per il recepimento della Direttiva dagli Stati Membri è fissato a marzo 2026, mentre le disposizioni saranno applicabili da settembre 2026. Ci vorrà dunque un certo lasso di tempo per valutarne gli effetti, e soprattutto per valutare se tali disposizioni potranno essere considerate idonee ad arginare il fenomeno del greenwashing.